
© Stefano Graziani, Milano, 2013
Filippo De Pieri Dobbiamo una precisazione al lettore circa il punto di vista dal quale affrontiamo le questioni poste da questo numero di État des lieux. Qualche anno fa abbiamo entrambi partecipato (non da soli) a un volume collettivo chiamato Storie di case : abitare l’Italia del boom e a un più ampio progetto di ricerca sulle architetture residenziali costruite per i ceti medi nell’Italia del secondo dopoguerra. [1]
Molte delle osservazioni che proporremo vengono dalle esperienze compiute su questo oggetto comune : un patrimonio diffuso di edifici residenziali multipiano, relativamente anonimi, che ancora oggi segna in maniera visibile il paesaggio delle città italiane. Al tempo stesso abbiamo osservato questo stock abitativo da punti di vista in parte differenti : io come storico dell’architettura e della città, interessato ai nessi tra la storia degli oggetti costruiti, la storia sociale dei luoghi, la storia culturale degli immaginari progettuali e abitativi e la storia delle politiche urbane. Tu come urbanista, interessato a comprendere le pratiche che attraversano i luoghi e a leggere i possibili scenari della loro trasformazione. Dimentico qualcosa ?

©Michela Pace, Torino, 2013
Federico Zanfi Vorrei aggiungere soltanto che si è trattato di un lavoro esplorativo : Storie di case, pur senza spingersi fino alla codificazione di un metodo, scommetteva sull’efficacia della microstoria per indagare un oggetto complesso (la ricerca verteva su una ventina di casi studio osservati in grande dettaglio) e metteva insieme al lavoro fonti e modalità di osservazione diverse. Ciascun autore, poi, nello sviluppare le microstorie è stato influenzato dalla propria esperienza e dai propri interessi di ricerca, e i casi di studio hanno in alcuni casi assunto il carattere di temi e piste di ricerca potenziali. Piste che alcuni di noi hanno continuato a battere in modo diverso, a seconda di come queste si collocavano nelle proprie biografie e reti. In questo senso è interessante, a qualche anno di distanza, parlare di cosa si è generato da quell’esperienza, di come quel lavoro abbia incoraggiato altri ragionamenti.
FDP Dobbiamo parlare di “valorizzazione del patrimonio” e l’espressione, che compare nella presentazione di questo numero della rivista, mi sollecita perché pone questioni con cui, da storico, mi sono trovato spesso a che fare. Non dovrebbe essere necessario ricordare quanto sia stretto, e anche potenzialmente conflittuale, il rapporto tra processi di storicizzazione (cioè di riconoscimento di un oggetto come meritevole di attenzione storica) e processi di patrimonializzazione (cioè di costruzione sociale di un oggetto come meritevole di conservazione in quanto rappresentativo di valori condivisi) [2]. Oggi gli storici dell’architettura sembrano spesso pensare i processi di patrimonializzazione come in qualche modo separati e indipendenti rispetto al lato “scientifico” del loro lavoro : allo storico accademico ricostruire la storia delle architetture, alla società (e magari agli stessi storici, questa volta in veste di consulenti) riconoscere eventualmente quelle stesse architetture come degne di tutela. Vi sono anche tradizioni di segno opposto, legate alle origini stesse della disciplina e a una rivendicazione dell’attività dello storico dell’architettura come esplicitamente dedicata a far crescere l’attenzione verso oggetti di cui si auspica la conservazione. Georgian London di John Summerson, pubblicato nel 1945, fornisce un esempio particolarmente memorabile di questa postura. Ora, gli oggetti di cui noi ci siamo occupati, i condomini italiani degli anni cinquanta-settanta, richiedono una risposta che non rientra in questi schemi rassicuranti. Promuovere una visione patrimoniale di questi oggetti non è mai stato uno dei nostri obiettivi (ci si può chiedere fino a che punto la conservazione di questo stock abitativo sia effettivamente desiderabile) [3] e tuttavia il rischio di un’eterogenesi dei fini sicuramente esiste. Quando abbiamo progettato Storie di case, come tu ricordavi prima, abbiamo immaginato i nostri casi studio come relativamente intercambiabili, nel senso che le microstorie su cui ci siamo concentrati servivano soprattutto a osservare da vicino alcune tipologie di processi o di attori, decifrandone le logiche. Tuttavia, per quegli oggetti specifici su cui abbiamo scelto di concentrarci – specie quando ci siamo occupati di opere di architetti o imprese ‘minori’ fino a quel momento non storicizzate – il nostro lavoro ha significato in alcuni casi un aumento di visibilità e forse anche una valorizzazione economica o simbolica. Come uscire da questo paradosso ? Non credo esista una risposta univoca se non nella necessità di porre la questione in modo il più possibile esplicito. In società che tendono oggi verso forme di patrimonializzazione generalizzata, quello tra storicizzazione e patrimonializzazione è divenuto un dialogo in cui per lo storico è necessario situarsi consapevolmente, prendendo ogni volta posizione a partire dai problemi specifici che gli oggetti evocano.
FZ La responsabilità nel lavoro dello storico che tu evidenzi è un punto rilevante. Ma in relazione al modo attraverso cui si racconta oggi il patrimonio abitativo in questione, se penso agli urbanisti e agli studiosi di politiche urbane, questa responsabilità può essere intesa anche sotto un’altra angolazione. Abbiamo detto che si tratta di edilizia ordinaria, aggiungo che è uno stock caratterizzato da un assetto proprietario estremamente frazionato e soprattutto che è diffusamente posseduto dal ceto medio italiano, di cui costituisce il principale capitale (fisso). Raccontare questo patrimonio cercando da un lato di non limitarsi alle riduzioni delle chiavi di lettura correnti – la vetustà, l’inefficienza energetica o l’insicurezza statica, enfatizzate da certi attori della filiera dell’edilizia quasi a dimostrare l’inevitabilità di una generalizzata “rottamazione” –, e dall’altro di osservarlo entro un quadro di senso non semplificato – non limitandosi cioè al manufatto, ma considerando in che contesto territoriale ed economico questo è inserito, chi lo possiede e lo occupa oggi, chi lo potrebbe occupare in futuro e per quali usi – non significa necessariamente innescare processi di patrimonializzazione o auspicarsi azioni di conservazione, ma piuttosto suggerire la necessità di una riflessione progettuale che faccia i conti con la complessità dell’oggetto. Il che, nel nostro caso, vorrebbe dire mettere al centro del progetto il ceto medio proprietario, e ad esempio chiedersi se è possibile fronteggiare la crisi che lo investe attraverso forme di riuso adattivo del suo patrimonio. Entro questa prospettiva prende forma un significato di “valorizzazione del patrimonio” complementare a quello che tu hai richiamato, le cui implicazioni forse stanno maggiormente sul piano sociale, o economico, o ambientale.
FDP Con questo sarà evidente per il lettore che stiamo usando la parola patrimonio in un’accezione molto ampia : non tanto per indicare oggetti architettonici sottoposti o da sottoporre a tutela, quanto in senso lato, da una parte prendendo atto dell’eredità materiale lasciata da una stagione di espansione urbana, d’altra parte riconoscendo il fatto che alcune delle pratiche o delle tracce legate alla storia di questo paesaggio residenziale sono attualmente oggetto di forme di patrimonializzazione informali e non istituzionalizzate. Vengono in altri termini viste da specifici gruppi di attori come parte di un’eredità che merita di essere trasmessa o che è riconosciuta come potenzialmente fondativa di un’identità o di un ceto sociale. In questo senso si può parlare di riconoscimento di un valore patrimoniale che può coinvolgere più aspetti : le culture progettuali, i modi di abitare, le tipologie… Sono processi culturali che possono contribuire a orientare i progetti trasformazione degli oggetti complessi di cui stiamo discutendo verso direzioni specifiche.
FZ Aggiungerei che, oltre agli aspetti che hai richiamato tu, questi oggetti costituiscono un enorme deposito di energia e materia, e immobilizzano risparmi. Se a molti di essi non è scontato riuscire ad assegnare un valore storico o testimoniale, ma in alcuni casi neppure un valore economico, a me sembra importante portare la riflessione sul valore d’uso potenziale di questi spazi costruiti in relazione a nuove domande, alle quali si potrebbe tentare di rispondere accoppiando politiche edilizie con politiche pubbliche di altra natura. Oggi, in termini generali, la questione potrebbe riassumersi così : entro quali prospettive ha senso impegnarsi per rimettere al lavoro i condomini costruiti nel dopoguerra – ma la stessa domanda potremmo porcela per le case uni- o bifamiliari delle nostre urbanizzazioni diffuse – in una condizione di transizione demografica da un lato e di aumento delle disuguaglianze tra città e territori dall’altro ? [4] In che modo, ad esempio, si potrebbe incentivarne l’ammodernamento tipologico e l’offerta attraverso affitti accessibili, così da renderli confacenti alle domande abitative emergenti nei mercati urbani più dinamici del paese ? In che modo, d’altra parte, si potrebbe farne uno spazio imprenditivo a sostegno dell’occupazione giovanile nei contesti deboli del Mezzogiorno o nelle Aree Interne ? Questo per dire che il valore di questo patrimonio può esprimersi, oltre agli aspetti che richiamavi, anche attraverso un progetto che ne liberi un possibile valore d’uso.

©Michela Pace, Torino, 2013
FDP Ci viene chiesto di ragionare sulla pluralità di attori e di scale che intervengono nel riconoscimento e nella gestione del patrimonio urbano e a me sembra che una delle questioni che sono emerse dalle nostre ricerche sulla stagione dell’espansione edilizia italiana del secondo dopoguerra sia che questa pluralità di attori e questa commistione di scale è un dato di lungo periodo. Lo scambio continuo tra scale micro e macro, tra politiche urbane e costruzione di una dimensione abitativa del quotidiano è uno dei dati che emergono dalle nostre storie. Siamo stati a lungo poco abituati a leggere queste forme di ibridazione perché la letteratura sull’housing/sull’abitare è stata dominata da punti di vista settoriali, che riproducevano e in qualche modo legittimavano una divisione del lavoro in corso : di qua le politiche per la casa, di là l’urbanistica ; di qua l’approccio tecnico, di là la comprensione del sociale ; di qua lo Stato, di là la dimensione privata della famiglia [5]
Costruire uno sguardo trasversale è oggi importante proprio per riuscire a osservare in prospettiva alcune pratiche di costruzione del territorio che rispondono a logiche diverse rispetto a quelle veicolate da questa ideologia della specializzazione.
FZ Credo che la ricostruzione di microstorie e l’osservazione – dall’interno degli edifici – del modo in cui gli spazi costruiti vengono usati e trasformati possano aiutare a cogliere alcuni dei nessi che tu richiami, e siano strumenti indispensabili nel corredo di uno studioso che oggi si muove nel campo degli studi urbani. Molte tra le vicende che hanno portato alla costruzione degli edifici privati indagati in Storie di case lasciano emergere per esempio un ruolo forte dell’azione pubblica a livello nazionale, che dapprima ha sostenuto la costruzione diffusa del patrimonio edilizio, e in seguito la sua rivalorizzazione. Penso in particolare alle misure che negli ultimi due decenni hanno consentito di estrarre valore dallo stock privato – dalla possibilità di intervenire sui sottotetti, alle diverse forme di incentivi fiscali per l’ammodernamento edilizio – e che hanno avuto grande diffusione, soprattutto nei contesti più dinamici del paese. La ricostruzione delle biografie degli edifici e degli abitanti e l’adozione di uno sguardo interno – forse più in Calling Home [6] che guardava anche a territori non urbani, che in Storie di case – ci ha consentito di cogliere alcuni impatti concreti sulle storie individuali o familiari di queste politiche, e di rilevare a livello micro tracce di fenomeni più macroscopici che alcuni gruppi di ricercatori – come quello riunitosi recentemente attorno al volume Riabitare l’Italia, o nel Forum Disuguaglianze e Diversità [7] – ci hanno poi invitato a riosservare in modo critico. Nel caso specifico suggerendo, per esempio, di ripensare l’approccio incentivante al recupero del patrimonio edilizio privato messo in campo da tali misure, affinché queste agiscano sugli spazi costruiti cercando di temperare le correnti di polarizzazione sociale e gli squilibri tra territori, anziché accrescendoli.

©Frame dal video Lavoratori in cabitazione/a workers’ cohousing (callinghome.it)